Chi romperà l’incantesimo?

I mercati azionari sembrano invincibili, continuano a salire incessantemente, soprattutto negli USA. I mercati obbligazionari sono inscalfibili, continuano a presentare rendimenti estremamente contenuti e prezzi elevatissimi. Il mercato del credito è in piena salute, con gli spread creditizi ritornati vicino ai minimi storici. Il Private Equity e gli Hedge Fund sono nel momento più florido della loro storia basti pensare che ci sono così tanti soldi in cerca di nuove sottoscrizioni che molti dei più quotati fondi sono costretti a rifiutarli. I prezzi delle materie prime si sono risvegliati dopo un decennio di letargo. Le criptovalute, in particolare il Bitcoin, hanno avuto 14 mesi di rialzi ininterrotti. Ovunque si guardi tra le varie asset class del mercato finanziario si vedono grafici rialzisti, talvolta con spumosi e iperbolici rialzi.

Se vi chiedete il motivo di tali rialzi in uno dei peggiori periodi di crescita economica dalla Seconda guerra mondiale la risposta è a nostro avviso semplice: politica fiscale e monetaria espansiva o meglio, esplosiva! Ondate di denaro immesse dai governi di mezzo mondo nell’economia reale sotto forma di sussidi, incentivi fiscali e garanzie finanziarie. Oltre a questo, ondate di nuovo denaro creato elettronicamente dalle banche centrali necessario per finanziare le emissioni di titoli di stato utilizzate per attuare tali stimoli fiscali.

Per coloro che seguono questa newsletter da tempo non vi è nulla di nuovo. Dalla grande crisi finanziaria del 2008 e dalla successiva crisi del debito pubblico europeo del 2011 segnaliamo che l’atteggiamento dei policy-maker a livello mondiale è quello di sostegno incondizionato ad economia e mercati finanziari, ben rappresentato nell’emblematico discorso di (super) Mario Draghi “Whatever it takes”. Fino al COVID il sostegno era principalmente monetario, orchestrato con maestria e nell’accezione positiva del termine dalle banche centrali. Dal COVID in poi il sostegno incondizionato è stato, come detto, sia fiscale che monetario.

Seppur con riluttanza ed apprensione, abbiamo spesso sostenuto che ad ogni correzione dei mercati finanziari e ad eventuali “vuoti d’aria” ribassisti nel prezzo delle azioni, le banche centrali sarebbero corse in soccorso dei mercati, dando probabilmente sostegno ai corsi azionari nel medio lungo periodo. Così come noi, molti osservatori hanno preso atto di questa dinamica, seguendo quello che è un detto assai famoso a Wall Street: “don’t fight the FED”. Non andare contro la Federal Reserve, non andare contro il governo o con una terminologia più colloquiale, non fare la pipi controvento.

Certo l’esposizione ad azioni ed asset volatili non può e non deve essere senza limite, vanno correttamente pesate a seconda del profilo di rischio dell’investitore; tuttavia, una significativa e crescente parte del portafoglio deve essere allocata in asset volatili, perché in alternativa si va in contro ad una sicura perdita di potere d’acquisto.

Continuando con questo approccio, anche un peggioramento dell’economia per la 3°, 4°, 5° ondata COVID non cambierebbe lo scenario. La crisi economica farà traballare certamente i mercati, ma poi governi e banche centrali arriveranno con enormi sacchi di denaro “digitali, ecosostenibili e sociali” (come va di moda dire) e li getteranno ad imprese e famiglie. Certo, alcuni falliranno, altri vivacchieranno, ma in media l’economia sarà alimentata da tale benzina finanziaria. Quando poi la crisi finirà e l’economia si stabilizzerà, l’enorme massa monetaria e fiscale prenderà trazione e farà ripartire la crescita.

Vi sono due scenari in cui tale incantesimo potrebbe svanire. Il primo è una crisi deflattiva con fallimenti a catena tra aziende e famiglie. Il secondo, un rialzo non atteso delle attese di inflazione. Andiamo ad analizzarli entrambi.

La crisi deflattiva, o quello che in gergo si chiama “debt-deflation spiral”, avviene quando un’economia è fortemente indebitata e la discesa dei prezzi (deflazione) fa diminuire i redditi di imprese e famiglie rendendo più difficoltoso il pagamento del debito che per definizione non si abbassa. In questo caso la deflazione crea più fallimenti, causando ulteriori discese di prezzo per la svendita dei prodotti, una più grave deflazione e ulteriori fallimenti. Tale tipo di dinamica, avvenuta negli anni 30 del 1900, causerebbe il collasso del mercato azionario ed il probabile collasso del comparto obbligazionario corporate.

La letteratura finanziaria ed in particolare le correnti di pensiero che hanno il controllo delle principali banche centrali mondiali, sostengono che tale scenario sia da evitare a qualunque costo. Non a caso, proprio perché si temeva la spirale deflattiva, nel 2008 le banche centrali hanno oltrepassato il Rubicone ed hanno intrapreso politiche monetarie espansive e quantitative senza precedenti.

Riteniamo che lo scenario deflattivo sia quello più improbabile. Governi e banche centrali hanno fatto di tutto per evitarlo, e quando hanno provato a navigarlo, per esempio durante la crisi dei PIIGS europea, hanno constatato che politicamente, socialmente ed economicamente è ormai inattuabile.

Per evitare deflazione e fallimenti, si è dovuto quindi inondare il sistema di liquidità e garantire le aziende in difficoltà. Pensiamo in Italia al decreto “liquidità” ed al “cura Italia”: hanno bloccato i licenziamenti, hanno instituito moratorie ai prestiti, hanno incentivato i finanziamenti a medio lungo termine facendosi garanti delle aziende (via Medio Credito Centrale), hanno offerto incentivi a fondo perduto (seppur limitati). In America hanno fatto politiche simili, con molti più incentivi a fondo perduto e minori blocchi ai licenziamenti. In Europa idem. In Cina, Australia, Giappone idem.

Come si può pensare che in caso di aumento del rischio di deflazione e fallimenti cambino idea e strategia? Impossibile; nuovi incentivi e garanzie arriveranno, tanto i soldi li stampano le banche centrali (vedi anche Newsletter del mese scorso).

Ecco, quindi, che l’unico rischio per interrompere l’incantesimo è l’inflazione, un’inflazione più alta del previsto che metta paura alle banche centrali e di riflesso ai mercati finanziari. Se l’inflazione sale ed i tassi di interesse non aumentano, si creano tassi reali (tasso di interesse meno inflazione) fortemente negativi, che incentivano gli agenti economici a consumare (spesso a debito) ed investire. In questo senso non c’è nulla di male nel breve periodo, anzi è proprio quello che le banche centrali ed i governi vogliono ottenere, tuttavia dopo un principio di euforia gli investimenti ed i consumi potrebbero far aumentare ancor più l’inflazione e costringere le banche centrali a reagire ed a bloccare il sostegno. L’incantesimo è rotto, tutto è possibile nuovamente, anzi le azioni e gli asset rischiosi potrebbero scendere anche se l’economia va bene.

Vi sembra uno scenario confuso e poco chiaro? Lo è infatti. Nessuno sa quanta inflazione serve per passare da un ciclo di crescita positivo a delle tensioni negative. Nessuno sa quando l’inflazione diventa negativa per le aziende quotate, incidendo negativamente sui margini. Nessuno sa quando il rialzo dei tassi di interesse a medio lungo termine per crescenti attese di inflazione metterà pressione alle valutazioni presenti nei mercati azionari. Nessuno sa se e quando un modesto tasso di inflazione (2-4%) possa diventare un tasso destabilizzante (7-10%) per il sistema economico e sociale di un paese. Nessuno sa se le banche centrali avranno la capacità di intervenire nel momento giusto e stabilizzare i prezzi senza far deragliare l’economia.

Perché ne parliamo adesso? Perché le attese di inflazione sono da qualche mese in forte rialzo negli USA, il prezzo delle commodity agricole è significativamente cresciuto nella seconda parte del 2020, il petrolio si è stabilizzato e la produttività delle aziende è stata impattata dal COVID. Inoltre, gli incentivi ai disoccupati stanno facendo alzare il costo opportunità di stare senza lavoro, causando richieste di salari più alti.

Per il momento, tuttavia, l’indice dei prezzi al consumo sta salendo in linea con la media storica in USA ed è ancora stagnante in Europa.

Tale tendenza non giustifica per ora nessun cambiamento di funzione di reazione da parte delle banche centrali, mantenendo quindi l’incantesimo inalterato. Si può prevedere tuttavia che con l’apertura dell’economia vi sia un’ulteriore accelerazione dell’inflazione. In questo periodo probabilmente le azioni (asset reali) avranno un ulteriore fiammata, ma il comparto obbligazionario, soprattutto quello a medio e lungo termine soffrirà. Ciò potrebbe innervosire i mercati azionari, che temeranno una reazione restrittiva delle banche centrali. Lo scenario peggiore in questo caso sarebbe una banca centrale restrittiva, ma non a sufficienza da mettere sotto controllo l’inflazione, in quel caso la credibilità dei policy maker potrebbe essere in parte minata e gli investitori esposti ad un futuro incerto.

Con l’incantesimo interrotto i mercati azionari potrebbero correggere anche violentemente, tuttavia il paradosso è che in quel caso le azioni sarebbero da accumulare non da liquidare. Esse, infatti, sono asset reali e tendono a proteggere l’investitore in caso di inflazione elevata; quanto meno lo proteggono molto meglio rispetto al mercato obbligazionario ed al cash in conto corrente.

Oggi è presto ancora per parlare di questi scenari, ma senza dubbio alcuno la variabile di gran lunga più importante per gli investitori è l’inflazione, l’unica variabile che può rompere l’incantesimo.

Quindi non su Nasdaq, non su Bitcoin, non su Tesla, tenete gli occhi puntati sull’inflazione.