I FAANG han fatto “SBRANG”

Per molto tempo FAANG nei mercati finanziari era l’acronimo che individuava il meglio del meglio delle aziende quotate nel mercato americano.

Era il nickname che gli analisti avevano affibbiato ad un gruppo di 5 società High Tech americane che iniziavano con le medesime lettere dell’alfabeto: “F” stava per Facebook (oggi Meta), le due “A” erano Apple e Amazon, la “N” stava per Netflix e la “G” per Google.

Queste 5 società a fine 2021 (vicino quindi al picco di mercato) sfioravano gli 8.000 miliardi di dollari di capitalizzazione e con l’aggiunta della “sorella” Microsoft superavano di gran lunga i 10.000 miliardi di dollari.

Una cifra che faceva impallidire il Prodotto Interno Lordo di molti paesi del G7.

Basti pensare che il PIL dell’Italia a fine 2021 superava di poco i 2.000 miliardi e né Francia, né Inghilterra arrivavano a 3.000 miliardi.

Ebbene, dalla grande crisi finanziaria del 2008, ogni fondo d’investimento, ogni ETF, ogni private banker non poteva non possedere una significativa porzione dei FAANG.

IL dominio dei FAANG

Queste aziende, infatti, erano quelle che avevano tassi di crescita del fatturato a due cifre, enorme penetrazione nel mercato di riferimento, un brand estremamente riconoscibile e invidiato, ma soprattutto sembravano “invincibili”. Nemmeno la pandemia le ha scalfite, anzi l’ulteriore digitalizzazione dell’economia in seguito ai lockdowns diffusi, ha contribuito ad accelerarne la crescita di fatturato e del numero di nuovi utenti.

Il risultato finale è che da Marzo 2020 ai massimi di Gennaio 2022 Facebook è cresciuta del 157%, Apple del 244%, Amazon del 110%, Google del 200% e Netflix di oltre il 110%.

Tali crescite impallidiscono se si amplia l’orizzonte d’analisi; per esempio da inizio 2015 ai massimi di fine 2021, Netflix, la più esuberante del gruppo, è salita di oltre il 1.350%, moltiplicando per 13 la propria capitalizzazione di mercato in meno di 6 anni.

Improvvisamente però da inizio 2022 le cose sono cambiate.

Le persone sono uscite definitivamente dal lockdown, diminuendo la loro permanenza sulle piattaforme digitali. La crescita economica è ripresa e con essa sono salite le attese d’inflazione e le attese dei tassi di interesse di politica monetaria. Le banche centrali ed i governi hanno ridotto gli stimoli fiscali e monetari ed infine, per alcune di queste aziende, la guerra in Ucraina ha chiuso indirettamente un importante mercato di sbocco come la Russia.

Sono quindi cresciuti i dubbi sulla sostenibilità della crescita prospettica dei ricavi e degli utili aziendali e, soprattutto, i crescenti tassi d’interesse hanno contratto i multipli di valutazione che il mercato era disposto a pagare.

Come una piccola valanga, nel primo trimestre dell’anno i prezzi dei FAANG hanno iniziato a scendere.

La più colpita è stata senza dubbio Netflix, quella più piccola e quella più soggetta all’ “usciamo a bere una birra”, post pandemia. Il prezzo delle azioni della piattaforma di streaming è sceso dal massimo di 700 USD, di novembre 2021, al minimo di 162 USD di maggio 2022, una discesa del 76% che ha completamente eclissato tutti i guadagni post COVID.

 

Prezzo di Netflix al Nasdaq in USD (fonte TradingView)

grafico andamento FAANG

Minori, ma pur significative correzioni vi sono state per Apple, scesa del 27.5%, Google –30%, Facebook -55% e Amazon scesa del 46%.

In termini di capitalizzazione di mercato i FAANG sono scesi oggi a circa 5.000 miliardi di dollari, bruciando in meno di 5 mesi oltre 3.000 miliardi di dollari, o 1 PIL italiano e mezzo di capitalizzazione.

Nonostante queste enormi discese tuttavia i FAANG mantengono un peso significativo all’interno dell’indice azionario mondiale MCSI World.

Anche se la “N” è ormai scomparsa dalle prime posizioni, Apple, Google e Amazon sono rispettivamente la prima, la terza e la quarta azienda dell’indice mondiale e Facebook è la settima. Nel complesso le Big 4 pesano per oltre 9% del MCSI World e tale peso sale enormemente se si analizzano gli indici americani o quelli settoriali.

Risulta evidente, quindi, che seppur oggi FAANG non sia più sinonimo di eccellenza ed invincibilità, esso permane un paniere di titoli ampiamente posseduto e diffuso tra investitori e gestori.

Questa è l’ennesima riprova di quanto un portafoglio poco diversificato o, ancor peggio, mal diversificato possa creare delle problematiche.

Per esempio, a fine 2021 non era difficile trovare un investitore che possedeva 3 ETF/Fondi, uno globale, uno americano e uno sulle nuove tecnologie e fin qui nulla di male! Purtroppo, però andando ad analizzare i portafogli sottostanti, si verificava che all’interno delle prime 10 posizioni di queste fondi, vi erano sempre nei primi posti i FAANG, talvolta con pesi superiori al 25%/30% del patrimonio complessivo!

In questo senso, quindi, molti portafogli erano falsamente diversificati e ne stanno pagando le conseguenze in questi mesi.

Questa dinamica di iper-concentrazione delle aziende che più vanno “di moda” spiega, a nostro avviso, quello che forse possiamo individuare come il più grande rischio dell’investimento passivo in ETF, fondi ed indici di mercato.

L’immissione di nuovo capitale sempre negli stessi fondi, aumenta il denaro che confluisce verso le azioni che pesano di più all’interno dei fondi stessi, creando spirali che si autoalimentano. L’aumento della capitalizzazione dei FAANG ha portato a ottime performance degli indici con essi presenti ed ha attratto nuovi fondi ad investire, i quali a loro volta hanno portato ad ulteriori aumenti dei prezzi dei FAANG stessi.

L’inversione di tendenza!

Ecco quindi che oggi, in un momento di vendite, la spirale si inverte e le vendite dei FAANG causano vendite dell’indice, le quali a loro volta causano discese ulteriori sulla capitalizzazione dei FAANG stessi.

Chiaramente queste dinamiche hanno poco a che fare con i fondamentali delle aziende, che permangono comunque estremamente positivi!

I movimenti sono piuttosto causati dall’eliminazione di una “spuma” valutativa che probabilmente si era creata negli anni passati, aiutata anche dai tassi d’interesse molto bassi e dalla politica monetaria ultra-espansiva. Il problema è che è molto complicato comprendere quando le valutazioni saranno sufficientemente calate per attrarre nuovamente gli investitori, magari quelli che non sono rimasti intrappolati ai massimi di mercato ed hanno ancora liquidità disponibile.

Conclusioni:

A ben vedere questo ci insegna, una volta di più, che la regola d’oro dell’investimento è la reale diversificazione dell’esposizione al rischio che, per sua stessa natura, tende ad essere nemica delle mode e degli eccessi.

In questo senso la finanza comportamentale deve dettarci le regole per analizzare le opportunità nel modo quanto più oggettivo possibile, senza farci influenzare troppo dai trend oggi presenti.

Detto questo, non si deve eccedere nemmeno nella direzione opposta, imponendoci di non partecipare a trend secolari come l’ Information Technology, le piattaforme online e le nuove tecnologie in generale.

 

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